Presentato in anteprima fuori concorso a Venezia77, ecco Assandira, ultima fatica del regista Salvatore Mereu, tratto dall’omonimo romanzo di Giulio Angioni (2004 – Sellerio).
Assandira racconta una storia ambientata in una Sardegna in bilico problematico tra vecchio e nuovo, tra generazioni diverse e tra, diciamolo, culture diverse.

Trama
Costantino (Gavino Ledda) è un vecchio pastore sardo che in una sola notte perde tutto ciò che ha di più caro. Infatti, il suo agriturismo Assandira, situato in mezzo al bosco, è stato completamente distrutto da un violento incendio spento solo dalla pioggia torrenziale.
All’anziano uomo le fiamme hanno portato via anche il figlio (Marco Zucca), che non è riuscito a salvare, lasciando in lui un grande dolore e un tremendo rimorso. Quando la mattina seguente i carabinieri e un giovane magistrato (Corrado Giannetti) arrivano sul posto, Costantino cerca di spiegare loro cos’è successo e come tutto ha avuto inizio…
Una personalissima opinione
Da un punto di vista estetico, la regia si compone di tantissimi piani sequenza, che portano il tempo in una dimensione sospesa, che sfiora il sogno. Man mano che si va avanti, le vicende sembrano stratificarsi più nell’illusione che nella realtà: ciò che succede non sembra reale. Con lunghe inquadrature senza stacchi, lo spettatore è preso per mano e accompagnato nel cuore dei protagonisti, mentre la macchina da presa (e con essa il pubblico) quasi si insinua con prepotenza nel mondo di Assandira, spiando e osservando, ma senza giudicare.

A questo si affiancano primi piani dei personaggi: la Sardegna viene privata sullo schermo dei paesaggi da cartolina. L’isola non è, evidentemente, fatta solo di luoghi, ma anche di persone che si fanno guardiani di una tradizione e di una memoria storica che coinvolge un popolo intero. Ma soprattutto che custodiscono anche una memoria personale, unica, fatta del proprio vissuto privato: Costantino ha avuto una moglie, una famiglia; è stato costretto a fare il pastore, lavoro tanto iconico nell’immaginario sardo, e per questo non è andato a scuola; e via dicendo.
Assandira (allerta spoiler)
L’agriturismo Assandira è un paradiso idilliaco pronto a diventare un incubo infernale. Il locus amoenus di Costantino si trasforma in terra bruciata, terra di nessuno, dove le fiamme hanno punito i peccatori, consapevoli o inconsapevoli, umani e animali. La morte è arrivata a portare via tutto, anche la vita di chi ancora doveva nascere, che sia il figlio della nuora Grete (Anna König) o il puledro della cavalla bianca, colore dell’innocenza.
Tuttavia la struttura narrativa è abbastanza ripetitiva, alternandosi tra passato e presente. Appena superata la metà, il film perde spinta e “il mistero sul piromane” risulta, se non ovvio, sicuramente tirato per le lunghe. Se all’inizio si era trascinati nella storia come l’acqua dal fiume, nella seconda metà, la corrente incontra qualche ostacolo. Un’introduzione lunga e ben impostata, per un film che si ritrova, tuttavia, con troppi minuti alle spalle e ancora troppa storia davanti da raccontare.

Linguaggi, comunicazione e parole
Nota di particolare interesse è la questione della lingua e della parola: la diversità tra vecchio e nuovo non è espressa solo dallo scontro tra le varie generazioni, ma soprattutto dell’incomunicabilità tra queste. L’incapacità di capirsi e di determinare un incontro è rappresentato dai diversi livelli linguistici che vanno a depositarsi sopra i personaggi, creando delle barriere che solo la tragedia riuscirà a sfondare, ma non con gli effetti desiderati.
La nuora Grete, in questo senso è significativa: parla un tedesco gutturale e severo, riferito alle dispute interne tra moglie e marito, a cui però affianca un inglese dolce e mieloso per ammaliare i turisti. Lei assomiglia quasi a una Circe moderna, che attende i visitatori nella propria casa, li culla e li coccola, per poi trasformarli in sudici maiali ammucchiati in una grotta al chiaro di luna…
Inoltre, cerca di parlare un italiano grezzo per comunicare con Costantino e famiglia, ma quella contaminazione straniera nel modo di strutturare le frasi rende le parole false nella sostanza seppur corrette nella pronuncia. I suoi “va tutto bene” non sono rassicuranti, anzi, assumono la forma di una minaccia: snaturare una tradizione secolare per renderla spettacolo, mercificarla, svuotarla di senso e tenere solo il guscio decorativo che attira i turisti e riempie le casse di denaro. E nel rendere una peculiarità locale appetibile ai cittadini del mondo, non si può che perderne il senso originale.

Infatti, spesso non riesce a farsi capire proprio da quel depositario di tradizione che lei vorrebbe vendere: il sardo di Costantino non è comprensibile, né dalla nuora né dal figlio, che parla il dialetto della madre.
A questo si aggiunge la voce narrante del protagonista che, grazie a un Gavino Ledda già scrittore e padrone della parola, cerca di comunicare allo spettatore qualcosa di più intimo, che sta nella sua testa e che nemmeno lui riesce a elaborare: un lutto. Ma soprattutto i perché che hanno portato a tali conseguenze: a finire con un pugno di cenere in mano, un cimitero di animali e un figlio sacrificato per combattere la falsità che aveva corrotto Assandira.