Degrado, desolazione e vendetta: quando il piccolo diventa grande e il grande diventa piccolo.
Ispirato al famigerato caso di cronaca nera passato alla storia come “delitto del Canaro”, Dogman è un film del 2018 co-scritto e diretto da Matteo Garrone.
Seppure il film non ripercorra chirurgicamente ogni evento dell’efferato delitto avvenuto a Roma nel 1988, ne riprende comunque alcuni elementi portanti che il regista romano usa per ricamare una storia diversa e ben più complessa sul piano umano rispetto alla controparte reale.
Siamo nella periferia di Roma. Marcello (Marcello Fonte) è un gracile e pacifico toelettatore che ha un piccolo negozio nella piazza principale del quartiere popolare in cui vive. È divorziato e coltiva un amorevole rapporto con sua figlia condividendo insieme a lei le sue passioni, godendo inoltre della benevolenza del suo quartiere. Marcello però per sbarcare il lunario, oltre ad occuparsi del suo negozio, spaccia cocaina ai conoscenti del rione.
Questa sua seconda vita lo porta ad istaurare un velenoso rapporto con Simone (Edoardo Pesce), pugile dilettante e dipendente dalla cocaina che terrorizza il quartiere con la sua violenza. Tutti lo temono, ma nessuno ha il coraggio di fare nulla. Il protagonista subisce da quest’ultimo continue percosse e umiliazioni sia fisiche che psicologiche. Questo però è il rione, la polizia e la giustizia non hanno giurisdizione qui, vige una sola regola. Arrivato al limite della sopportazione, dopo anni di angherie subite, Marcello decide di architettare la sua vendetta.
Marcello Fonte (Marcello) in una scena del film
Ancora una volta Garrone si pone come narratore esterno di vicende che raccontano la strada e il rione, luoghi di umanità in tutte le sue sfaccettature, ricercando quella realtà urbana palesemente messa da parte e dimenticata.
Guardare Dogman significa guardare la concretizzazione dell’isolamento umano attraverso più livelli spaziali. Dall’isolamento del quartiere immerso nel nulla e lontano dalla civiltà, all’isolamento del singolo individuo che seppur immerso in un ambiente con altre persone in realtà è solo e può contare esclusivamente su se stesso.
Registicamente il film presenta i canoni tipici del cinema neo-neorealista di Garrone: campi lunghi e silenziosi in cui l’individuo si perde tra i palazzi popolari, la macchina a mano e la fotografia dai colori insaturi che richiama la crudezza dell’ambiente di strada, i campi-controcampi intensi in cui gli sguardi dicono più delle parole.
Ad elementi registici crudi che richiamano le prime pellicole di Garrone troviamo anche dei momenti di eleganza estetica dai toni quasi noir che testimoniano la mano versatile del regista romano.

La scrittura nella sua semplicità strutturale riesce perfettamente a cadenzare il ritmo del film che è concettualmente strutturato in due parti: azione nella prima parte di film, reazione nella seconda. Unite fra loro in maniera coerente nella loro crudeltà. La scrittura del film fa emergere un ambiente silenzioso, isolato ma estremamente intenso che fa da palcoscenico al rapporto tra due individui molto diversi fra loro, fisicamente e psicologicamente. I cui ruoli di vittima e carnefice finiranno però per invertirsi portando lo spettatore, che inizialmente empaticamente spalleggia per Marcello, persino a temere quest’ultimo.
Magistrale il comparto attoriale. Marcello Fonte, premiato come migliore attore a Cannes per l’occasione, ed Edoardo Pesce lasciano letteralmente senza parole con la loro interpretazione che carica di intensità ogni singola scena del film; lasciando parlare il più delle volte la loro opposta fisicità: da una parte la fragilità e l’insicurezza di Marcello, dall’altra la possanza e la prepotenza di Simone.
Edoardo Pesce (Simone) e Marcello Fonte (Marcello)
Dogman è senza ombra di dubbio uno dei film italiani più interessanti degli ultimi anni. Garrone non crea un film violento, crea un film di violenza. E questa violenza non è il fine ma il mezzo per raccontare una realtà isolata, degradata e distante come la periferia. Un ambiente che nella sua desolazione ha tanto da dire e che il regista romano racconta senza morale ma con sensibilità