L’apice del thriller nel cinema classico, il vortice romantico di Hitchcock.
Il maestro assoluto del genere thriller, ancor prima del capolavoro moderno che è stato Psycho, entrò definitivamente nell’Olimpo del cinema classico con un film epocale, Vertigo. Anche dopo una seconda visione è difficile parlare di Vertigo di Alfred Hitchcock, per cui pur trattandosi di una recensione, ne parlerò in maniera strettamente personale.
Il film comincia con un prologo che segna il carattere di Scottie (James Stewart) e l’origine drammatica della sua acrofobia, la paura dell’altezza e il presentarsi della sofferenza per la vertigine, la distorsione dell’equilibrio. Ambientato a San Francisco – una delle città statunitensi più belle e uniche-, Vertigo è un viaggio alla riscoperta dell’interiorità di un poliziotto in pensione, in un susseguirsi di vicende riguardanti l’ossessione per una donna dall’inquietante mistero (Kim Novak), l’equilibrio psicologico dei due personaggi e il significato delle loro unicità in quanto due anime gemelle.
Hitchcock, accompagnato da una fotografia a colori fuori parametro per l’epoca e ancora oggi sorprendente, costruisce il film iniziando con grandi silenzi, inseguimenti dal ritmo lento, con un’atmosfera inquietante e quasi esoterica per le tematiche e il sonoro. I piani più ampi del film sono dei veri e propri quadri (in un caso un vero e proprio quadro realistico per ricreare il campo lungo lo sfondo notturno e la torre di una monastero spagnolo), con una composizione dell’immagine che sorprende per la scelta dei colori vividi tendenti a rossi intensi, verdi accesi e blu ammalianti, spesso in contrasto con gli elementi in penombra, quasi a fare da scuola cromatica per la fotografia dei futuri Suspiria (Luciano Tivoli, in particolare per gli ambienti) e a tratti a The Phantom Thread (Paul Thomas Anderson e vari, specialmente per i costumi) altri due eccezionali film.
Si passa da vecchie chiese deserte a imponenti musei vuoti a ristoranti di classe pieni di clientela, fino a panorami naturali ammalianti come la foresta millenaria e la baia portuale di San Francisco. La varietà di ambientazioni è molto alta e descrive pienamente l’emotività dei personaggi attraverso l’estetica dei 70mm della pellicola, che viene sorretta dai colori vividi e gli scuri.

Quello che sorprende ancora oggi di questo film – considerabile un capolavoro, magari non l’assoluto capolavoro di Hitchcock ma sicuramente una pietra miliare del thriller – è che la scrittura si stratifica su più piani, nonostante sia un film d’autore molto semplice da fruire. Anche rivedendolo e perdendo la sorpresa per il finale, colpisce per i continui cambi di prospettiva e spaesamento del protagonista assieme a quello dello spettatore, durante il climax vorticoso di quello che è considerabile l’atto finale, ovvero quello dopo la prima sequenza al monastero spagnolo.
È indubbio che stiamo parlando di un film pressoché perfetto in ogni sua componente, che si costruisce e decostruisce atto dopo atto, con un’iniziale investigazione che segue a una storia d’amore conturbante che alla fine diventa un incubo romantico estremo, in una miscela fortissima e memorabile tra il noir e la love story drammatica.
La componente del doppio e la componente della perdita della propria identità viene trattata magistralmente, con picchi che raggiungono quasi il meglio di ciò che è stato apportato al cinema dal capolavoro di Bergman, Persona, e in seguito dai lavori di Lynch. La regia è diretta, maestosa nella sua espressione ma dall’estetica disturbante. Non in tutte le sequenze è invecchiata alla perfezione, soprattutto se non si vede l’edizione restaurata, ma l’opera è comunque ricca di sperimentazioni visive molto forti come ad esempio i vari dolly zoom vertiginosi e la scena dell’incubo di Scottie.
Non poteva essere un capolavoro del thriller senza una colonna sonora memorabile, e indubbiamente le note del maestro Bernard Herrman che accompagnano il film sono sempre presenti, malinconiche e opprimenti nel delineare una ricerca vorticosa e vertiginosa, metafora di un’amore sfuggevole, istantaneo e misterioso in cui perdersi: un capolavoro a sé stante. Lo spaesamento dei personaggi è poeticamente sostenuto da note molto tetre e dall’aura misterica che accompagnano il film ad un finale che spezza il respiro per la sua crudeltà. Vertigo è un film da scoprire e riscoprire, in cui perdersi nel vortice ammaliante e triste della vita in declino di due persone profondamente sole ed eternamente insoddisfatte.